1984


Una volta i computer funzionavano a linee di testo, con lettere verdi su un monitor scuro. Sui PC si scrivevano cose come:

C:\> dir

Per leggere sullo schermo qualche cosa come:

Directory of C:\
COMMAND  COM
AUTOEXEC  BAT
KEYB      COM
CONFIG    SYS
MSDOS.  SYS
...
12 File(s) 252 Bytes
0 Dir(s)

Per sapere cosa ci fosse su un floppy disk dell’Apple II si batteva CATALOG sulla tastiera. Per lanciare un programma si scriveva RUN.
Con Macintosh cambiò tutto. Già quando l’accendevi, ti segnalava il suo risveglio con un boing che Apple non avrebbe più abbandonato. Il suo schermo era bianco come la carta su cui si scrive. L'utente era accolto dalla metaforica scrivania del Finder, sui cui stavano il disco, o i dischi, con le applicazioni ed i documenti. Non si battevano comandi per evocare i documenti sul disco, ma attraverso un puntatore (il cursore) mosso dalla nostra mano (facendo scivolare un mouse, il topolino - per via della coda) si selezionava sulla scrivania il dischetto con un click, lo si apriva con un doppio click, ed appariva una finestra a mostrarne il contenuto. Con il mouse, le finestre si spostavano e si ridimensionavano, e persino si sovrapponevano. Lo stesso per i documenti, che si spostavano trascinandoli, in una cartella, sulla scrivania o anche da un disco all'altro (in questo caso venivano copiati). O infine spostati nel cestino, che era posto all’angolo in basso a destra dello schermo. In questo modo li si cancellava, anche se i documenti restavano comunque nel cestino, per un eventuale recupero, fino a quando questo non veniva svuotato.
Aprendo un’applicazione, lo schermo veniva occupato della sua finestra, con un effetto visivo che rafforzava la metafora, come se si trattasse di oggetti veri. Sbirciando sotto la finestra, non si vedeva però più il Finder, almeno fino all'arrivo del Multifinder, all’epoca di System 5. Per tornare al Finder, era necessario chiudere l'applicazione.
Lungo il margine superiore dello schermo faceva la sua bella figura la barra dei menu, che rimaneva (coerentemente) la medesima in ogni applicazione. La prima voce della barra era il menu mela, rappresentato appunto dall'icona della mela morsicata, che dava accesso agli accessori di scrivania (la calcolatrice, l'orologio sveglia, il blocco note, il gioco del tris, che si chiamava puzzle, l'archivio appunti, il pannello di controllo).
Il secondo menu si chiamava Archivio (in inglese: File) ed era dedicato ai documenti, con le voci Nuova Cartella, Apri, Chiudi, Stampa. Nel caso che una voce di menu aprisse una finestra di dialogo, il suo nome era seguito dai tre puntini: "Apri...", "Stampa...". Nessun aspetto era lasciato al caso, ma era frutto di una studio accurato, riassunto nelle Human Interface Guidelines, le linee guida dell'interfaccia utente. Questo allo scopo di mantenere una coerenza nel comportamento di ogni elemento, affinché gli oggetti si comportassero in modo verosimile e uniforme come nel mondo reale, e l'utente fosse messo in grado di intuire il comportamento dell'interfaccia anche la prima volta che usava una nuova applicazione. L'interfaccia grafica rappresentava la metafora di una scrivania reale, con il piano di appoggio (il desktop) ed i cassetti, rappresentati dai dischi.
Il menu successivo della barra si chiamava Composizione (Edit), vale a dire Taglia, Copia, Incolla, Seleziona Tutto. Ogni voce di menu era (come è tutt'ora) seguita dall'icona di Command ⌘ (ispirata da un icona svedese in uso nei campeggi) associata ad una lettera maiuscola. Erano le scorciatoie di tastiera, identiche per ogni applicazione, per non perdere tempo a selezionare il menu. L'utente Mac sapeva che premendo la combinazione di tasti ⌘O apriva un documento (Open), con ⌘P stampava (Print), ⌘Q chiudeva l'applicazione (Quit), ⌘C copiava, ⌘V incollava e così via.
Il cursore era una freccia, che sul testo diventava una linea verticale (per farsi invisibile quando battevi i tasti, per non disturbare). Quando il computer era impegnato in qualche compito, il cursore si trasformava in un orologio da polso, le cui lancette giravano. Quando arrivò HyperCard, la freccia si trasformò in una manina (il browser).
La procedura era: prima si seleziona un oggetto, poi si impartisce il comando attraverso il menu (oppure con la scorciatoia di tastiera del tasto Command). Per semplicità, non esisteva ancora un tasto destro del mouse, né i menu contestuali. La scorciatoia era il doppio click, che nel Finder significava Apri, mentre il doppio click su una parola serviva a selezionarla per intero - e tre click selezionavano il paragrafo. Per eliminare un documento, lo si trascinava nel cestino, nell’angolo inferiore destro dello schermo, dove rimaneva, ed era recuperabile, fino a che il cestino non venisse vuotato intenzionalmente.
Era una rivoluzione copernicana, che avrebbe influenzato ogni interfaccia di computer di lì a venire (vale a dire Windows, Amiga OS, GEM, GS OS, NeXTSTEP, X Window, Linux Gnome e KDE, e persino le attuali interfacce touch, dove il cursore è sostituito dal dito ed il click dal tap).
La prima tastiera del Macintosh non comprendevano i tasti freccia, su precisa indicazione di Steve Jobs, che non voleva che l'utente li utilizzasse al posto del mouse. Partito Jobs, le frecce comparvero sul Macintosh Plus, assieme al comodo tastierino numerico.
Quando infilavi un dischetto, questo appariva sulla scrivania. Per espellerlo non c’erano pulsantini da premere sotto il drive, ma ne andava trascinata l'icona sul cestino (in alternativa si selezionava il menu Espelli). Le periferiche venivano riconosciute automaticamente: il disco rigido (quando fu disponibile) e la stampante (la ImageWriter ad aghi, con il nastro dell'inchiostro disponibile anche a colori). Si chiamava plug & play, e quando anni dopo lo stesso sistema venne implementato su Windows, venne soprannominato plug & pray, “collega e prega”, per la sua scarsa propensione a funzionare.
Lo schermo era rigidamente in bianco e nero, ed i grigi erano realizzati attraverso artistiche texture. Il colore sarebbe apparso solo nel 1987 con Macintosh II, la cui primissima versione mostrava un Finder in bianco e nero il cui unico elemento colorato era la melina iridata.
Fra le applicazioni (che allora si chiamavano programmi), con MacPaint si poteva disegnare pixel per pixel, con l’aiuto di strumenti come il lazo per selezionare, e il secchiello per “colorare” (cioè riempire con una texture lo spazio circostante). MacDraw creava immagini vettoriali, che potevano raggrupparsi fra di loro per creare immagini complesse. In stampa queste immagini non avrebbe avuto l'aspetto pixellato (dentellato) di quelle di MacPaint. In MacWrite per la prima volta un programma di scrittura mostrava la pagina esattamente come sarebbe stata stampata, con tanto di font, corsivi, grassetti, spaziature, immagini: era il WYSIWYG, “quello che vedi è quello che ottieni”.
Poco più tardi Adobe avrebbe realizzato il linguaggio di descrizione dell'immagine PostScript, con cui arrivarono le curve di Beziers e la nascita del Desktop Publishing, il primo lavoro professionale per un Mac accoppiato alla LaserWriter.
Microsoft collaborò con entusiasmo al corredo software del Macintosh, con programmi potenti come Microsoft Word, le cui versioni 3 e 5 erano una manna per chi scriveva, ed il foglio elettronico, che all'inizio era Multiplan e poi divenne Excel. Le applicazioni Microsoft avevano il vantaggio di occupare poca memoria RAM, la memoria di lavoro (che è altra cosa dallo spazio di archiviazione dei dischi, chiamata memoria di massa). Il primo Macintosh aveva infatti una memoria di soli 128 Kbyte, pochi per lavorare, che furono presto portati a 512 nel cosiddetto Fat Mac, e infine a 1024 (1 MegaByte!) nel Macintosh Plus. Il floppy disk stivava 400 Kbyte (poi raddoppiati a 800), in cui riuscivano a trovare posto il sistema operativo (di cui una parte significativa stava in realtà nella ROM dentro al computer), il programma, ed ancora doveva restare lo spazio per i documenti.

tratto da: Il futuro non è mai come te lo saresti aspettato

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